Nei primi anni del nuovo millennio paure e disagi dimenticati sono riemersi in Occidente, dopo cinque positivi decenni di speranze e di benessere crescente. Timori e sofferenze che toccano nel profondo le coscienze e i comportamenti di milioni di persone, fino a far parlare di crisi antropologica.

La questione non è purtroppo molto approfondita e indagata, anche se di recente alcuni ricercatori ne hanno esplorato alcuni aspetti. È l’epoca dell’incertezza sostengono molti economisti e sociologi, per le nuove sfide aperte dalla globalizzazione.

È la fine di una lunghissima stagione di stabilità e di crescita e del convincimento di una quasi automatica continuità.

In realtà alcuni segni di crisi profonda si potevano già scorgere da tempo, con l’apparente tramonto di valori e sentimenti fondamentali: la morte di Dio come il venir meno di un naturale sentire religioso della società; l’eclisse dell’ideale di patria come principio di identità comune profonda; la fine della famiglia come dimensione esistenziale normale

La Fondazione Censis nelle settimane scorse ha esplorato, con il supporto di dati e indicatori oggettivi, alcune facce del malessere odierno, del disagio antropologico che riguarda la società contemporanea. L’analisi muove dalla messa in luce del crescente primato delle pulsioni soggettive e della sregolatezza («faccio quello che voglio io»).

Torna alla mente quanto scriveva John Henry Newman al Duca di Norfolk «la coscienza è una severa consigliera, ma è stata rimpiazzata da una sua contraffazione: è il diritto ad agire a proprio piacimento».

Nel paesaggio umano cresce il rinserramento nel proprio interesse «particolare», rifiutando così ogni socialità. La ricerca del benessere immediato e la coazione al consumo sono i tratti di una fenomenologia individuale e collettiva proiettata nel presente.

Un malessere significativo, ad esempio, si manifesta nei cosiddetti ceti medi che, fino a quando la crescita economica appariva stabile e progressiva, avevano forse immaginato un approdo a livelli sociali più evoluti e borghesi.

Le difficoltà degli ultimi anni hanno gettato nello sconforto centinaia di migliaia di famiglie occidentali che hanno visto arrestarsi l’ascensore sociale e si sono viste proiettate di nuovo verso il basso.

Nel periodo medio, anche nel ricco Occidente, potrebbero così tornare ad aumentare le disuguaglianze sociali, accrescendo non poco il disagio e l’inquietudine.

Non meno rilevante è la perdita di autorevolezza della scuola, intesa come sistema di formazione, di crescita sociale, di valutazione del merito. L’Ocse segnala da anni la necessità di nuovi investimenti nella preparazione del capitale umano, nella formazione degli stessi insegnanti e nella loro valorizzazione, come premessa indispensabile del progresso culturale e civile collettivo.

Un altro aspetto sistemico, importante e sottovalutato, è la questione del rapporto fra generazioni, o meglio dei problemi individuali e sociali posti dal prodigioso allungamento della vita che non ha precedenti nell’esistenza umana.

Nei Paesi più avanzati si è passati da una speranza di vita di 55 anni nel 1930 agli 80 di oggi. Le medie statistiche, come è ovvio, incrociano chi vive meno e chi di più, con il risultato però, di consegnarci in vita numerose generazioni di anziani, in accettabili condizioni di salute. È il risultato di conquiste straordinarie del progresso sociale, dell’alimentazione, della medicina.

In questo contesto umano «invecchiato» può essere poi superficiale fare riflessioni critiche sui limiti di certe reazioni giovanili: da quelle un po’ totalizzanti successive al Sessantotto a quelle degli odierniindignados delle piazze europee. Certo la gran parte sono giovani ai quali non manca un tetto, né mezzi per muoversi e comunicare, né soldi in tasca per l’ennesimo aperitivo. Manca per molti però un inserimento sociale e una responsabilità vera.

Ma chi ha educato queste generazioni? Chi le ha protette oltre ogni limite, togliendo loro, se possibile, ogni difficoltà anche minima da superare? Preparando per loro, finché erano meno consapevoli, ogni concreta risposta materiale, e proseguendo in questa linea anche quando i ragazzi non erano più tali e dovevano spiccare il salto dal nido? È la condizione nuova delle famiglie lunghe, che comprendono cioè più generazioni.

Le risposte a questi importanti fenomeni sono antiche e nuove insieme. Vi è anzitutto la sfida di educare, di mettersi in gioco, di incontrare l’altro e di crescere con lui. Educare significa tirare fuori qualcosa che è dentro, ma anche condurre. È il compito di tanti quello di sostenere la libera formazione delle coscienze e delle personalità. È soprattutto un dovere dei gruppi dirigenti, di quelli che si sentono tali.

Una sfida educativa che riguarda anzitutto gli stessi educatori, perché abbandonino la paura e i timori e riscoprano la necessità e l’urgenza «di una grande opera educativa e culturale»